
Le mie storie, narrazioni di realtà che entrano ed escono dalla fantasia. Succo e distillato di molteplici letture. Racconti, che possono evolvere in molte direzioni. Recensioni e critiche sono bene accette.
📄Taxi Uber Alles
Cavalleria Rusticana | Racconto di Antonio Bria
9 Aprile 2018
Il ritorno.
Suo padre aveva uno di quei negozi indefinibili, dove si trova di tutto e che sono connaturati ai piccoli paesini del sud come del nord. Ci potevi comprare dei chiodi, o due etti di mortadella col pistacchio, un cacciavite o due pacchi di pasta. Ma con l’apertura sempre più diffusa di centri commerciali – dove appunto si trovava di tutto e di più – questi negozi, queste botteghe erano destinate a chiudere. Era il caso della famiglia Macca; il padre oltretutto non reggeva alla vergogna dei debiti ed era morto di crepacuore. Debiti tanto quanto Salvo aveva messo da parte nelle missioni all’estero con l’Esercito Italiano. Era stato ovunque lo mandasse il Battaglione Tuscania: Kossovo, Iraq, Afghanistan. Salvo era un bravo soldato, un caporal maggiore tutto d’un pezzo, un guerriero dei tempi moderni. Bravo nell’utilizzo di tutto l’equipaggiamento tranne la testa, “una testa calda”. E proprio alcune sue “alzate di testa”, avevano fatto incacchiare il Colonnello Caponi. Era la seconda volta che lo convocava, e subito gli aveva detto che non ci sarebbe stata una terza. Almeno in due occasioni aveva messo a rischio la vita sua e quella del suo plotone. In quest’ultima era sceso dal lynce durante un’operazione di perlustrazione, nonostante il divieto del Sergente, e aveva strattonato un ragazzino colpevole di aver sputato per terra al loro passaggio, causando la sollevazione dell’intero villaggio. Ci volle tutta la determinazione e la bravura del Sergente per risolvere la situazione di tensione, che tuttavia non poté non fare rapporto al Colonnello. Quindi il Colonnello fu chiaro: “Macca si congedi, o la congediamo noi … con disonore!”
Ufficialmente, quindi si era congedato per tornare a casa e affrontare la situazione dei debiti di famiglia e badare alla madre. Salvo doveva anche capire che ne era stato della promessa di matrimonio con Lola, la sua fidanzata. Al suo arrivo, si era precipitato dalla madre in cerca di reciproco conforto ed era toccato alla signora Lucia, dopo un lungo abbraccio e qualche lacrima soffocata, informare il figlio che c’erano ancora debiti da onorare e che la buonanima del padre negli ultimi tempi era diventato inguardabile, depresso e apatico. Non usciva più di casa, si vergognava. Poi ripresasi dalle lacrime lo aveva informato che la sua Lola non gli voleva abbastanza bene da aspettarlo. Tant’è che aveva sposato un altro, uno che stava bene, aveva un lavoro, faceva l’autista con una grande macchina tedesca bianca, e si chiamava Alfio. Salvo sulle prime era incredulo, ma poi aveva dovuto fare i conti con la realtà: Lola aveva sposato un altro. Del resto in giro si diceva che lui non si faceva sentire per mesi, e poi quando Lola aveva saputo delle disgrazie della famiglia Macca, amore o non amore, si vede che aveva cambiato idea e questo Alfio, che era anche un bel ragazzo, aveva un lavoro e disponibilità economica, e Salvo doveva affrontare i problemi della famiglia.
Sabato pomeriggio.
▪️Ehi, ciao Salvo, non ti avevo visto, come stai, tutto a posto?
▪️E che, invisibile diventai? Tutto a posto e nenti in ordine. E tu come vanno le cose, ti vedo bene. Bel vestito, ti sta bene. E la collana? Accattasti scarpi nove?
▪️Si, le ho viste l’altro giorno, mi piacevano tanto, e oggi sono passata a prenderle. Sai, Alfio mio marito, guadagna bene. Mi ha dato pure la carta di credito. Così mi accatto quello che voglio e lui è contento picchì ci piaci farmi regali.
▪️E io non potevo farteli i regali? Se mi aspettavi!
▪️Salvo, ascolta … mi fa piaciri rivederti ma non accumminzari cu sta discussione, è cosa chiusa, ormai … tu scumparisti … insomma basta … sugnu sposata!
▪️E questo che mi veni a significare, non putimo vederci e fare, comme si dice, conversazione?
▪️Proprio accussì, salutarci, bongiorno e bonasera, quattro chiacchiere, non fare alzate di testa, e poi pure tu ti mpignasti no? Ho saputo che stai con Santuzza, e che pure voi vi sposate.
▪️Eh, ma Santuzza non è come la mia Lola!
▪️Salvo, finiscilla. La tua Lola jè spusata cu Alfio, punto.
▪️Vabbene, ma nu’ cafè potresti offrirmelo, comme a vecchi amici.
Lola, avrebbe voluto opporre un diniego, poi ci aveva ripensato, perché no? Si era detta, e aveva ceduto alle insistenze di Salvo: E vabbene, passa stasera a casa, Alfio è di turno, e un cafè ce lo possiamo anche permettere … comme a vecchi amici!
Al Bar Sport, Salvo era alla quarta birra con un gruppo di amici ed il “giro” sembrava solo all’inizio. Era entrato Alfio che aveva chiesto un’acqua tonica con limone. Alfio era – come si dice – pieno di sé, altezzoso, orgoglioso del suo lavoro. Lo si poteva sentire canticchiare Oh che bel mestiere fare il carrettiere! Alfio, che si vantava di essere preciso, in tutto: rispettava gli orari, guidava controllando i giri del motore, eseguendo tutti i comandi alla precisione, rispettando tutti i segnali stradali, i semafori, le strisce pedonali. Tra i due era esploso un primo sguardo. Lo sguardo di Salvo era di sfida, quello di Alfio di commiserazione. A Salvo gli era salito il nirbuso.
▪️Eh, Alfio che c’è, che cazzo guardi!
▪️E chi ti guarda, beviti a’ birra e non mi rompere la minchia!
▪️E invece tu mi taliasti, che vuoi? Forse che ti dà fastidio se mi bevo una birra con gli amici? Forse che ti danno fastidio gli amici? E già tu amici non ne tieni. Tu bevi acqua minerale. Ti scanti che ti cacciano la patente?
▪️E questo è il punto, non sulo siti abusivi, ma biviti pure! Mettete in pericolo anche la gente ca’ purtate!
▪️E invece questo nun è u punto, picchì in questo momento non sugno operativo, non ti sta bene? E quindi mi bevo la birra. E poi che cosa mi vieni a significare con questo abusivi, che minchia vuoi dire? Forse che solo tu sei autorizzato a travagliare?
▪️Certo, sicuro io tengo una licenza che mi sono guadagnato, e garantisco una certa professionalità, voi invece … che vuoi, che la patente è bastevole?
▪️Ma quale patente e patente? Io a Militare ho guidato tutti i mezzi possibili e mpossibili.
▪️Si, si come si fusse la stessa cosa … e ad ogni modo voi ci rovinate il mercato con i vostri prezzi bassi.
▪️Ah, vi roviniamo il mercato? E cosa dovremmo fare, morire di fame? Ma vattine va, beviti la tua acqua brillante, e vattine a casa, che c’è Lola che ti aspetta!
▪️Che mi nomini a mia moglie, mi vuoi provocare? Che ne sai se mi aspetta o non mi aspetta?
▪️Eh ti innervosisci, che non lo sai che io e Lola eravamo fidanzati? E ora siamo amici, è vietato pure questo?
▪️Appunto, eravate! Adesso tu non la devi nominare e non ti permettere di avvicinarla!
▪️E che è di tua proprietà, come la Mercedes, comme a’ licenza?
▪️Ma stai zitto va, che sei ubriaco, non apriri la vucca ca vuommachi!
A questo punto Salvo – che intanto si era avvicinato – aveva dato uno spintone ad Alfio, che aveva traballato. Era un inizio di rissa, soffocato dall’intervento degli amici che li avevano separati. Alfio era andato via, non senza prima lanciare a Salvo il suo avvertimento: Stai attento Salvo, ci vediamo in giro, stai attento!
Santuzza era andata a cercare Salvo, a casa dalla madre. Santuzza era il contrario di Lola, biondina con i capelli a caschetto, carina. Era sinceramente innamorata di Salvo, ma insicura e gelosa, e dal carattere volubile, si alterava facilmente, un po’ come Salvo, come si dice, si erano trovati! La sera prima Salvo non si era visto e non aveva nemmeno chiamato, né risposto alle numerose chiamate della ragazza. La signora Lucia non sapeva o non voleva dire nulla. Ma Santuzza aveva insistito:
▪️Io lo amo a Salvo, e lui mi dissi che mi sposa, e invece lui si vede con quella sbrigugnata di Lola, u sacciu!
▪️Ma che dici, Salvo travaglia a tutte le ore, lo sai che questo nuovo lavoro non tiene orari!
▪️E invece u sacciu, u saccciu … puttana la miseria il giorno chi ci cascai … lo hanno visto uscire da casa della Lola, se u vini a sapiri Alfio succede nu patatrac!
▪️Niente, non deve succedere niente, e tu zitta, non dire farfanterie, cosa significa lo hanno visto, cu’ u vitti? Qualcheduno chi ci vole male, uno di quiddi chi girano con le macchine regolari, i taxi come li chiamano loro.
▪️Ah, signora Lucia picchì non mi criditi, io disperata sugno …
▪️Eh, una birretta, nun è nenti, ne vuoi una anche tu? Proprio mo’ ti stavo chiamando.
▪️No, che non ne voglio … unni si stato aieri sira? T’haju aspettato fino a notti.
▪️Che non lo sai che con questo lavoro non ci sono orari, ho avuto chiamate quasi tutta la notte.
▪️E che è successo ieri a Catania? Per tutte queste chiamate? E poi u saccio che si voi puoi stutare il cellulare. E poi potevi almeno chiamarmi.
▪️Ma che è un interrogatorio? Ho lavorato, punto e basta. Pigliati na birra va’.
▪️Non la voglio la birra, voglio sapiri unni si stato e con chi si stato.
▪️Al lavoro, con decine di clienti … vuoi i nomi? – fa il gesto di prendere il cellulare per mostrarlo a Santuzza
▪️Vigliacco, minzinaro, non hai neanche il coraggio di dirmelo, avevi detto che mi sposavi, invece sei tornato con quella, mi hai usata, bastardo! E scema io che ci sono cascata e che ancora ti amo.
▪️Ecco, finiscilla di dire scemenze!
▪️U vidi comme mi tratti? Lo so che eri con Lola, mi hanno detto che ti hanno visto uscire da casa sua …
▪️E tu cridi a tutte le fissarie che ti dicono?
▪️Salvo, ti hanno filmato, e non l’hanno messo su Facebook solo per non far succedere una tragedia … li ho pregati … se u sapi Alfio!
▪️Chissà cosa t’hanno fatto vedere … stavo caricando un cliente, carico clienti dappertutto.
▪️Non ti credo, non c’erano clienti nel filmato, … e poi tu sei cambiato … non ci sei, non mi chiami, picchì nun mi chiamasti?
▪️Adesso mi hai stufato, vado a lavorare, devo guadagnare sennò come ti sposo?
▪️Si, si. Vattine, va!
Salvo era appena andato via che al Bar Sport era arrivato Alfio. Aveva visto Santuzza seduta ad un tavolino, incupita e nervosa, le si era avvicinato: Ciao Santuzza, che hai? Stai bene? Il tuo fidanzato chi cumbina, u vidisti? Ieri sera era ubriaco, è un irresponsabile, dovresti badarci! – e Santuzza come se fosse stata punta:
▪️E tu dovresti badare alla tua Lola! Sarebbe meglio per tutti!
▪️Ma che stai dicendo? Cosa devo badare? Stai insinuando qualche cosa?
▪️Nenti, nenti. Sarà stato anche ubriaco ma la tua Lola l’ha accolto in casa e si sa le vecchie fiamme … u focu vicino alla paglia …
▪️Stai attenta Santuzza a quello che dici, se tieni problemi con Salvo non ti permettere di calunniare altre persone … stai facenno accuse tremende.
▪️E allora talia qui … – Santuzza mostra il video dal suo smartphone.
▪️Ma qui si vede la macchina di Salvo parcheggiata vicino casa mia, cosa vuole dire, ah ecco Salvo, si è Salvo esce dal portone del mio palazzo, ma cosa vuol dire, nenti.
▪️Ma io sono sicura che è stato a casa tua, lo sento, fossi in te lo spierei a Lola, fai un po’ tu!
Alfio imbufalito era andato a cercare Salvo, senza avere bene in mente cosa fare, forse ne sarebbe uscita una scazzottata, quella evitata la sera prima. Dopo aver girato un angolo aveva visto l’Audi nera mentre stava per caricare un cliente giapponese, allora con uno scatto della sua Mercedes l’aveva superata e aveva inchiodato davanti al cliente attonito ed immobile. Lo aveva invitato a salire ed era ripartito. Salvo che aveva subìto la scena sulle prime senza capire cosa stava succedendo, aveva iniziato ad insultare il tassista, poi avendo riconosciuto Alfio, lo aveva rincorso. L’inseguimento – a velocità vietata – aveva percorso le vie del Quartiere piene di gente in strada per il giorno di festa, alcuni stavano andando a messa. Salvo guidava a ritmo sostenuto con il volume a palla sulle note di Susie Q. In testa l’immagine delle conigliette che scendono ancheggiando dall’elicottero di Apocalypse Now. Aveva raggiunto Alfio e lo aveva costretto a fermarsi inchiodando davanti al muso della Mercedes. I due si lanciavano insulti che il cliente giapponese non poteva capire, e intanto scendeva dall’auto.
▪️Che minchia fai, Alfio? Mi futti i clienti?
▪️Che vuoi tu, strunzo? Sei abusivo, non tieni licenza. Sei tu che futti i clienti alla gente onesta che lavora!
▪️Gente onesta tu? Tu proprio parli, che ti metti con la fidanzata di chi intanto serve la Patria?
▪️Ma che mi vieni a dire? A Lola tu la lasciasti senza notizie!
▪️Perché tu non la lasci sola? Che pensi, che aspetta a tia?
▪️Vattinne Salvo, non mi provocare!
▪️Scinni da machina, che la risolviamo sta situazione!
▪️E scendi, va che t’aggiusto i corna!
▪️I corna a mia, ha parlato cervo a primavera!
Il nirbuso era acchianato. Erano scesi dall’auto. Alfio aveva in mano un martello da carpentiere, Salvo un grosso cacciavite. Si erano avvicinati minacciosi minacciandosi. Era stato un attimo: Alfio aveva sfondato il cranio di Salvo con una martellata, mentre quest’ultimo gli aveva piantato il grosso cacciavite dritto nel petto. Erano caduti entrambi sull’asfalto che iniziava a colorarsi rosso scuro. Nessuno dei due era riuscito a profferire “Ah, mamma mia!” Dalla portiera aperta dell’Audi usciva ad alto volume il refrain finale di Fortunate Son: non sono io, non sono io, non sono un figlio fortunato io. Sul marciapiede il cliente giapponese tremava come una foglia al vento, in mano reggeva una inutile katana comparsa chissà come, chissà da dove. Era la mattina di Pasqua e gli alberi del viale avevano già le prime infiorescenze di Primavera.
Qualche giorno dopo – ai funerali – il Colonnello Caponi aveva ricordato l’ardimento del caporal maggiore Salvo Macca, che in spregio del pericolo aveva affrontato le più pericolose situazioni nei teatri di pacificazione che l’avevano visto cimentarsi per la difesa dei più deboli in ogni angolo del mondo. Mentre don Vincenzo, il parroco del quartiere, aveva elogiato Alfio come lavoratore indefesso, preciso e scrupoloso, nella guida della sua automobile per il servizio dei cittadini, e marito fedele, giudizioso e generoso.
Introduzione alla trasposizione.
Nella trasposizione ho mantenuto i personaggi principali (ho cambiato Turiddu, in un più moderno Salvo) e l’ambiente, una Catania dei giorni nostri. Così come ho mantenuto l’intreccio originario, ma concentrandomi su quello che a mio avviso è il tema centrale dell’opera: l’orgoglio come motore di tragedia. Come elemento musicale spero che il lettore riporti alla mente alcuni brani dei Creedence Clearwater Revival, molto utilizzati come colonna sonora in filmati sulla Guerra del Vietnam.
Il racconto si basa sulla lettura del libretto d’opera Cavalleria Rusticana – Melodramma in un atto – Testi di Giovanni Targioni•Tozzetti Guido Menasci – Musiche di Pietro Mascagni, e della novella di Giovanni Verga dallo stesso titolo, alla quale il libretto si riferisce. La visione dell’opera nella versione diretta da Herbert von Karajan nel 1968 (Teatro alla Scala, produzione Giorgio Strehler, regia Ảke Falck), completa il quadro d’ispirazione.
📄L’Isola del Vurdalak
(riscritto sulla base del precedente: IL BRUCOLACCO)
Chi procede, con qualsiasi mezzo, verso Sud lungo la costa jonica, lasciata la Lucania incontra i primi paesi della Calabria arroccati sulle colline che digradano verso il mare. Allo stesso modo chi procede verso Nord, lasciata la piana di Sibari, incontrerà sulla destra a poche centinaia di metri dalla riva del mare un isolotto, staccato dalla costa, ma raggiungibile anche a nuoto con un minimo sforzo. L’isola è piccola, ma abbastanza grande da contenere dei campi ed una collina al sommo della quale resiste un antico maniero diroccato: una torre e delle mura sgretolate in più punti. I campi sono punteggiati da alberi di frutta, peri per lo più, inselvatichiti. L’isola non è più abitata da essere umano da secoli.
Era da molto tempo che volevo vedere quelle tombe. Tutti ne parlavano. Pochi le avevano viste. Io mai. Eppure sull’isola avevo passato giornate intere, durante la mia infanzia. Con Asdrubale, a catturare cardellini. Usavamo una tecnica sperimentata e consolidata: si faceva sciogliere in un barattolo di latta dei pezzi di gomma tagliati a strisce da una vecchia camera d’aria di bicicletta. La sostanza collosa che ne derivava, veniva poi messa sui germogli di un pero isolato, nei campi che circondano il vecchio castello. Sotto il pero, in una gabbiettina veniva messo un cardellino che fungeva da richiamo. I poveri cardellini accorrevano sul pero attirati dal richiamo e vi rimanevano intrappolati (non molti in verità, per loro fortuna e nostro disappunto). Era Asdrubale che faceva tutto. Io ero una specie di assistente. Lo aiutavo nella speranza che me ne regalasse qualcuno. Lui ne aveva tanti, tutti catturati con la stessa tecnica. Non appena un povero uccellino restava intrappolato, e penzolava a testa in giù dal germoglio, Asdrubale scattava come una saetta, e in un attimo era sul pero. Agguantava il malcapitato e lo riponeva nella grande gabbia che fungeva da cellulare. Non prima di averlo analizzato in dettaglio e avermi dato segni inconfutabili della sua competenza in campo di cardellini: “E’ un maschio di 1 anno” diceva, oppure “E’ una femmina, ma per la cova non se ne fa niente!”. A me non restava che ammirare cotale esibizione di scienza e condividere la paura di essere sorpresi dai carabinieri. La tecnica che usavamo è infatti vietata dalla legge. Ma, Asdrubale era certo di poter asserire che alcuni carabinieri usassero addirittura le reti per catturare uccelli, quindi si poteva stare tranquilli: “Se lo facevano, loro …!” Diceva. Giorni e giorni passati con Asdrubale, mi fruttarono due cardellini, che lasciai liberi dopo un paio di giorni. Mi facevano troppa pena, lì chiusi in gabbia.
Giorni e giorni passati con Asdrubale sull’isola e mai vista l’ombra di una tomba, eppure erano là.
Mi misi a cercarle con metodo. Girai in tondo per cerchi concentrici, tutto il campo che mi era stato indicato. Niente, non riuscivo a trovarle. Stavo per andare via. Avevo deciso che era meglio farmi accompagnare. Da solo non le avrei mai trovate. Ero ormai stanchissimo. Mi sedetti a riposare un po’. La cintura della reflex mi segava il collo. Mentre osservavo il tramonto, bellissimo da quella postazione, sentii un sussulto. ‘E che è il terremoto?’ pensai, ‘Forse ho le traveggole, sono troppo stanco’. Ne avvertii un altro. Mi alzai. Stava succedendo qualcosa. La pietra sulla quale ero seduto si era mossa. Mi chinai ad osservarla. C’era ormai poca luce. Ma gli ultimi raggi di sole, nella penombra, nel chiaroscuro facevano vedere chiaramente un’iscrizione. Non trovavo la tomba. Ci ero seduto sopra. Trascrissi quei simboli che conoscevo benissimo: erano delle rune. Come facesse a trovarsi una tomba con iscrizione runica da quelle parti Dio solo lo sa. Ma proprio per questo la cosa iniziava ad entusiasmarmi, non pensavo più ai sussulti che avevo sentito. Già pensavo a come avrei presentato la scoperta all’Università. Le rune le trascrissi, ma il senso delle parole non riuscivo ancora a decifrarlo: “EKHAGUSTALDAR WULFILASUNAU(S) (XXX)SLEPA(X)”
Cominciai a fare delle foto, ma la luce era ormai scarsissima. Mentre ero preso a calcolare tempi d’esposizione e diaframmi, avvertii una presenza dietro di me. Come una forte incombenza, un’ombra avvolgente.
Una mano ossuta e freddissima mi si posò sulle spalle. Una sensazione gelida mi attraversò tutta la spina dorsale. Impietrito mi girai piano. Una figura spettrale mi si presentò davanti. Un viso bianco, tutto avvolto in un manto nero. Stavo per svenire. Ma mi sorrise. Iniziò a parlarmi. Parlava in una lingua stranissima, antica: “Wulfila fadur gebe mik …” cominciò. Subito dopo iniziai a comprenderlo senza conoscere il suo linguaggio. Chissà per quale strano fenomeno. Si sedette sulla pietra con fare stanco, e mentre le ginocchia si piegavano intravidi una forte muscolatura nelle gambe e nelle braccia. Le mani doveveano aver impugnato pesanti armi di un’altra epoca: spade, picche e mazze. Buone per spaccare ossa e squartare corpi. Tremavo visivamente dalla paura, ma il suo modo di approcciarmi, di una gentilezza antica riuscì a tranquillizzarmi. Mi raccontò la sua storia. Una storia triste. Una storia d’amore. Lui guerriero navigatore era approdato all’isola molti anni fa, in cerca di ristoro. Una piccola comunità di pescatori e contadini lo accolse. Conobbe una donna e se ne innamorò. Anche lei lo amava, si incontravano di nascosto, e passavano tutto il tempo a raccontarsi delle storie, storie antiche dei loro popoli. Una volta durante un loro incontro segreto, in cui lui le cantava le antiche melodie della sua terra, vennero scoperti dal marito di lei, che senza sentire ragioni lo ammazzò scagliandogli in testa una grossa pietra. Da allora lui è confinato nell’isola e nelle notti come questa vaga per i campi ululando le sue nenie.
Ma vennero altri uomini e costruirono il castello che fu a lungo l’alloggiamento di un manipolo di armati, a guardia della costa. Le sentinelle dalla torre più alta scrutavano l’orizzonte in cerca di segnali delle temute navi saracine, che facevano razzia lungo le coste. Tuttavia i saracini non erano l’unico pericolo per l’isola. C’è stato un tempo, mi disse, in cui era costretto a rubare il sangue degli uomini per potersi tenere in vita. Sempre più spesso, anche nei paesi a ridosso delle colline, al mattino si trovavano giovani ragazze e ragazzi completamente dissanguati. Nessuno era in grado di dare spiegazione a queste morti, e così si sviluppò la leggenda che l’isola fosse maledetta, e progressivamente venne abbandonata. Si iniziò a narrare di un fantasma – un vecchio stregone – che alloggiava nel vecchio castello. Ma quel tempo era ormai finito. Gli uomini erano cambiati e all’isola non veniva più nessuno da moltissimi anni.
Aveva viaggiato a lungo, lasciando la sua terra a Nord, aveva percorso con la sua cavalcatura tutto il mondo conosciuto, portando aiuto e protezione a chiunque ne avesse bisogno. Con il solo modo che conosceva: l’uso delle armi. La sua spada aveva portato giustizia, ma anche sofferenze e dolore ed infine si era trasformata in mero strumento di morte. Molti, troppi, uomini avevano perso la vita per suo tramite. Molto, troppo, sangue era stato versato. Mentre era sulla via del ritorno, volle fermarsi a riposare sull’isola, che aveva intravisto dalla costa e dalla quale si sentiva attratto. Ma ciò che appariva albergo e ristoro si trasformò in prigione e sofferenza. Una sola cosa gli restava da fare: raccontare la sua storia ad un uomo che non avesse avuto paura nel guardarlo negli occhi. Poi sarebbe scomparso per sempre. Era il mio caso. I suoi occhi, piuttosto mi muovevano a compassione, dalla grande sofferenza che ne traspariva. Un dolore impossibile da contenere scolava dai suoi occhi che per un riflesso mi apparvero azzurri come il mare che ci circondava.
D’un tratto scomparve dalla mia vista, in un sommesso battito d’ali. Mi girai attorno. Non c’era più neanche la pietra. Forse avevo sognato. Troppo stanco. “Io quelle tombe non le troverò mai!” mi dissi, e tornai a casa. Il giorno dopo svuotando le tasche della giacca trovai un biglietto. C’era scritto: “EKHAGUSTALDAR WULFILASUNAU(S) (XXX)SLEPA(X)”
“Io Agustaldar figlio di Wulfila (qui) dormo”.