
La mia personale visione del mondo, su argomenti di carattere generale, ma anche su argomenti contingenti: cultura, politica, società. Mi piace interagire con chi ne ha voglia e fuori da ogni schema, pregiudizio o etichetta preordinata.
Razzista – Razzismo. 11/2/2018

Ragioniamo. Sembra che affermare: “Gli uomini sono tutti uguali!” porti ad autodefinirsi “Non Razzista” o “Contro il Razzismo”. Non credo sia così semplice. Intanto un conto è dire “Gli uomini sono tutti uguali” e un altro è dire “Tutti gli uomini hanno uguali diritti”, che ha come corollario – se gli stessi uomini scelgono di vivere in comunità sociali – “ … e uguali doveri!”, ossia sottostanno alle stesse e medesime Leggi. Ora, io penso di poter affermare di me stesso – con ragionevole approssimazione – che sono certo che esistano uomini migliori di me, così come sono certo che esistano uomini peggiori di me, e – sempre con ragionevole approssimazione – sono certo di potermi collocare nella parte medio-bassa della scala. Così come sono certo che questa migliorità e questa peggiorità non dipendano in nessun modo da: colore della pelle, provenienza geografica, religione, sesso, estrazione sociale, culturale, tradizioni, etnia, eccetera. Né dalle razze, poiché di razza ve n’è una sola, quella umana. Solo adesso posso affermare di “non essere razzista”. È razzista, invece, chi pensa il contrario. D’altro canto il razzista pensa male, ossia s-ragiona. In quanto non solo pensa che esistano “le razze”, bensì pensa che siano queste a determinare la sua migliorità e l’altrui peggiorità.
Riflessioni a margine della visione del film Gettysburg, sulla guerra civile americana.
Riflessioni sulla disoccupazione. 1° maggio 2023
Studiando Storia delle Istituzioni Politiche, si deduce che nell’Ottocento:
- L’industrializzazione e le sue conseguenze modificarono l’atteggiamento nei confronti della povertà, sollecitando una maggiore sensibilità per i problemi sociali. Le risposte al pauperismo furono differenti, diversificate e complementari. In Inghilterra la legge sui poveri del 1834 sancì il progressivo peggioramento dell’assistenza, informandosi alle principali interpretazioni liberali e utilitaristiche del tempo. Nel 1834 venne introdotta la Poor Law Reform Act, che, con l’abolizione della Speenhamland Law, segnò “la vera data di nascita della classe operaia moderna” e la definitiva trasformazione della società in un’economia di mercato. Il First Reform Bill e il Poor Law Amendment Act vennero considerati come il punto di avvio del sistema capitalistico, ponendo fine a ciò che è stata chiamata la “norma del padrone bonario e del suo sistema di assistenza”. Di fatto con l’affermarsi dei principi del liberismo economico si modificò in senso restrittivo la legislazione sui poveri, confermando la tendenza del disimpegno dello Stato rispetto alla loro assistenza. Di converso fu in seno alle prime associazioni operaie che si ebbe l’importante affermazione del principio mutualistico. Le friendly societies sorsero inizialmente in Gran Bretagna (per tutelare solo le élite degli operai specializzati) e vennero prese poco dopo in considerazione anche in Germania, come alternativa all’assicurazione sociale statale.
- Il radicarsi dell’associazionismo operaio portò alle prime rilevanti conquiste normative. Anche il resto d’Europa conobbe lo sviluppo delle organizzazioni del movimento operaio e socialista e un progressivo prevalere della componente politica su quella sindacale. Una delle reazioni dei governi, dinnanzi alla paura di sconvolgimenti rivoluzionari, fu allora l’invenzione delle assicurazioni sociali.
- Rispetto al carattere occasionale, residuale e discrezionale dell’assistenza l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria (il nucleo forte del welfare moderno) segna una vera cesura. La Germania la introdusse nel 1883 contro le malattie, nel 1884 contro gli infortuni e nel 1889 contro la vecchiaia e l’invalidità. Se l’ulteriore processo di industrializzazione aveva infatti favorito il varo di più schemi assicurativi, l’influenza delle politiche bismarckiane giocò un fattore altrettanto decisivo, soprattutto in ordine al nuovo ruolo dello Stato in materia sociale. Gli elementi di novità delle assicurazioni erano nella loro obbligatorietà che, di fatto, ne istituzionalizzava il carattere occupazionale (e contributivo), nel beneficiario al quale si rivolgevano (il lavoratore appartenente al settore industriale avanzato), nella loro natura di fondo.
- A differenza della tradizionale assistenza ai poveri le assicurazioni sociali crearono un diritto individuale dell’assicurato alle prestazioni che non erano stabilite a discrezione delle istituzioni locali, bensì in base a quanto stabilito dalla legislazione nazionale in modo centralizzato e secondo l’implicito riconoscimento che “esistevano cause sociali di bisogno di cui il singolo non era responsabile” (Ritter, 1996).
- Il primo schema assicurativo obbligatorio fu quello contro gli infortuni, scelta, questa, dovuta a più motivi. Poco dopo si ebbe l’estensione dell’assicurazione alle malattie e alla vecchiaia/invalidità sino a quella contro la disoccupazione, che rappresentò il passaggio di maggiore rottura rispetto alla tradizione liberale e conservatrice, incline a considerare la disoccupazione come portato di mera incapacità individuale (non prodotto dai meccanismi della società e del mercato). Pioniera fu la Gran Bretagna (1911), seguita da Italia e Austria (1919 e 1920).
[Dal Cap. 8 Le istituzioni del welfare, di Chiara Giorgi 175-177. Storia delle Istituzioni Politiche, Dall’antico regime all’era globale. A cura di Marco Meriggi e Leonida Tedoldi, Carocci editore. Roma, 2014 – 2021.]
E quindi le mie personali considerazioni: Tra la fine dell’Ottocento e gli anni iniziali del Novecento si consolidano politiche sociali negli stati europei che tendono ad intervenire sulle problematiche causate dall’economia di mercato e capitalistica. Uno dei principi fondamentali è considerare la disoccupazione non una “colpa” dell’individuo bensì una condizione che l’individuo subisce. Nelle recenti polemiche politiche italiane sul reddito di cittadinanza l’attuale maggioranza ha trasformato queste impostazioni tornando praticamente a prima del periodo sopra ricordato. I disoccupati sono così diventati “occupabili”. Se non trovano occupazione è per colpa loro. La disoccupazione come problema socio-economico non esiste più. (Sobh!). Antonio Bria
Aggiornamento sull'idea di progresso, 29/11/2017
L’IDEA DI PROGRESSO.
Sin da ragazzo mi sono spesso interrogato sull’idea di progresso, ovvero quell’idea che ci fa pensare che il mondo procede in una direzione che prevede sempre il progredire in meglio della condizione del genere umano. È un’idea innata, che nel tempo – maturando – ho collocato sempre più nella categoria dell’illusione ottica. In realtà le cose non vanno sempre meglio, ed in ogni caso dovremmo quantomeno sgomberare la nostra mente da una visione troppo centrata sull’occidente (o meglio sull’Europa occidentale). L’idea di progresso rientra nella questione generale di dove va il mondo, dove va l’umanità: Chi siamo? Dove andiamo? Sono, queste domande fondamentali, che non hanno risposte facili; le cui risposte stanno in una continua e progressiva ricerca che non è mai definitiva; e ognuno (ogni essere umano) ha la sua strada da percorrere in questa ricerca, consapevoli che il tempo a disposizione non sarà mai sufficiente.
Ora, tuttavia, ci sono diversi modi di interpretare la storia dell’umanità; per esempio la storia dei potenti, la storia dei popoli, dei regni, degli imperi (che cadono e/o sono sostituiti). Da questo punto di vista la storia dell’umanità altro non sarebbe che “una lunga teoria di massacri” (Umberto Eco).
Settanta anni fa qualcuno ha programmato, progettato, e agito il sistematico sterminio del popolo ebraico. Nella Conferenza di Wansee (gennaio 1942) i gerarchi nazisti sotto la guida di Heydrich e Eichmann prevedevano di sterminare 12 milioni di ebrei, calcolando tempi e prefigurando strumenti, in una logica di pianificazione industriale. Non hanno raggiunto l’obiettivo al 100%, per una questione di tempi; Russi e Americani hanno occupato la Germania nel 1945, e mostrato al mondo l’orrore. Bisogna visitare Auschwitz e Birkenau per capire la potenza diabolica di tale progetto. Ma ogni tanto, ancora oggi si leva una voce negazionista, ogni tanto qualcuno si occupa di riprendere tale progetto. Ora, se esiste ancora qualcuno che vuole agire quel progetto, che si tratti di ebrei (allora) o di altri (oggi) o di altre modalità, forse non stiamo progredendo.
Ma vorrei suggerire un modo per capire se nel presente progrediamo oppure no. La storia è fatta anche da singole persone, che un giorno dicono “basta! questa condizione non la tollero, e da oggi in poi non la tollererò più”. Un avvocato indiano, in Sud Africa, viene buttato giù da un treno, perché i “neri” non possono stare in prima classe, anche se hanno il biglietto; una signora nera di Montgomery (Alabama, USA) non si alza e non cede il posto in autobus ad un bianco (mi fanno male i piedi, cazzo!); un elettricista dei cantieri navali di Danzica (Polonia) si incazza perché non ci sono maschere sufficienti al reparto verniciature; una ragazzina in Pakistan vuole con determinazione andare a scuola, cosa che manda in bestia i fanatici religiosi del suo Paese. A queste persone viene riservato un trattamento di favore da parte dei potenti: incarcerati, isolati, infamati, calunniati, eliminati, eccetera eccetera. Tuttavia queste persone hanno un seguito, altre persone si aggiungono progressivamente alla loro lotta e alla fine vincono, senza massacrare nessuno.
In altri periodi, in particolare quelli in cui la crisi economica diventa asfissiante, si levano altre persone, mosse da altre motivazioni, che per semplicità non staremo ad indagare, che indicano a chi soffre le proprie soluzioni. Queste persone hanno capito dov’è il problema della crisi: il problema sono i disperati, gli immigrati, gli zingari, i profughi, i clandestini. Cavalcano la paura, promuovono la chiusura delle frontiere, il “respingimento” di chi chiede aiuto, l’egoismo collettivo: “prima noi!”. Già, un prima noi, che diventa sempre più stretto, sempre più circoscritto: la negazione dell’esistenza stessa del genere umano, che è vivere insieme e per gli altri. Tuttavia, anche queste persone hanno un seguito, e a volte vincono, tragicamente.
Ed eccomi alla lettura finale di quanto ho cercato di portare su un piano di riflessione, forse in maniera un po’ troppo semplicistica, ma dal mio punto di vista efficace per capire i tempi in cui viviamo. Il punto è, quanto seguito hanno gli uni rispetto agli altri: se vincono Gandhi, Rosa Parks, Walesa, Malala, Mandela, l’umanità fa uno scatto in avanti; se vincono Salvini e Marine Lepen l’umanità fa uno scatto indietro. Certo l’Umanità ha il tempo di recuperare: lo fa sempre; tuttavia, perché non evitare di ripetere gli errori del passato?
Antonio Bria
L'Ottimismo del Progresso, Aprile 1988
Il Satanasso, aprile 1988
L’OTTIMISMO DEL PROGRESSO.
È diffusa un’idea alquanto strana di progresso. Non che ci sia una intenzionale campagna pubblicitaria (in alcuni casi lo è), ma è come si sentisse nell’aria. Quelli in buona fede (gli ingenui) la chiamano “ottimismo degli anni ’80”. Secondo questa idea culturalmente valida il progresso procede con lo scorrere del calendario inesorabilmente ed irreversibilmente. Prima stavamo peggio, ora stiamo meglio, fra dieci anni meglio ancora, e così di seguito. Tant’è che alcuni ansiosi, stanchi di aspettare il 2000, dichiarano apertamente che ci siamo già. Intanto in quel di Ercolano, per citare un esempio lampante e vicino, due bambine che il progresso non vedranno mai, sono morte in situazioni drammatiche in un sottoscala adibito ad “abitazione”.
E questa è una visione europocentrica della situazione (anche la mia lo è), tesa cioè a prendere come determinanti per la storia dell’umanità gli elementi della società occidentale ed industriale. Ma che dire dell’Africa, dell’Asia e dell’America centro-meridionale?
Tre anni fa conobbi all’Università del Sussex (in Inghilterra) uno studente di Economia che per ottimismo ed idiozia non aveva rivali. Egli sosteneva che con l’ennesima rivoluzione tecnologica ed informatica e la libertà di mercato il mondo intero si sarebbe uniformato nella distribuzione del benessere. Tutto ciò intorno al 2000, cioè fra dodici anni. Utopia? Io direi piuttosto scarso realismo e cecità mentale e fisiologica.
Non nego che qualcuno starà sempre meglio, ma appunto io credo che la situazione non sia generalizzabile nemmeno nel mondo occidentale. Perché esiste il forte rischio che vaste aree dell’occidente, e di conseguenza vaste fasce di popolazione non fruiscano di questo nuovo benessere. Per fare un esempio lampante e vicino, il Meridione d’Italia (a fare questo tipo di esempio si rischia di essere monotoni).
Lasciando poi gli interessi del nostro campicello, per passare alla prospettiva mondiale le cose si complicano e sprofondano nel paradosso e nell’assurdo.
Cosa facciamo noi mondo ricco, civile, progredito per aiutare chi ha ancora il problema della nutrizione? Pensate un attimo agli esempi che darò di seguito e vi accorgerete di come l’ipocrisia in queste cose sia imperante.
Mandare aiuti alimentari, scadenti e inappropriati (pomodori pelati a gente che non ne conosce l’uso; latte in polvere a chi è senza acqua da anni ecc.) al terzo mondo, insieme ai nostri rifiuti tossici, non è aiutare chi muore di fame, ma pianificare uno sterminio. Permettere alle stesse popolazioni di immigrare nei nostri paesi, e poi non fare nulla per migliorare la loro condizione, non è aiutare, ma organizzare l’emarginazione e promuovere tutto ciò che ne consegue.
Ma, sentite questa. Il nostro è un mondo in cui mentre stai pranzando ti piove addosso una notizia, che tra l’altro, con tutto il fracasso televisivo che sopportiamo quotidianamente, passa per una normale notizia di cronaca. Il mezzobusto di turno esordisce con: “Scoperto traffico di organi tra terzo mondo e Germania Occidentale …”. Roba da farti vomitare il pranzo appena acquistato nel supermercato polifunzionale e scintillante, simbolo del consumismo (e dello spreco) occidentale. Ti trattieni. Ma il peggio deve ancora arrivare. Ecco l’intervista esclusiva all’organizzatore dell’immondo mercato (se non si è esclusivi in questo mondo non si è nessuno). Ma sorpresa, il tale non viene intervistato mentre soggiace alla gogna pubblica (o almeno in prigione!), ma nel suo studio, libero e a suo agio. E colmo dei colmi con la sua bella faccia di culo non ha niente di cui vergognarsi, anzi non fa altro che elogiare la sua opera di benefattore: “do la salute a chi non ce l’ha e i soldi a chi muore di fame”. E che dire dell’altro traffico infame tra Guatemala e Stati Uniti? Si rapivano bambini poveri di quel paese del Centro America, si smembravano e i “pezzi buoni” venivano trapiantati su altrettanti inermi innocenti, con la sola fortuna di essere nati in un paese ricco come gli Stati Uniti. Alle famiglie delle vittime (la maggior parte inconsapevoli: pensavano di dare un destino migliore ai loro figli) venivano elargiti compensi in denaro. Roba da prendere il televisore e scaraventarlo fuori dal balcone. E che diamine! Non si può essere disturbati mentre si pranza da tali notizie. Queste non sono normali notizie di cronaca: sono un pessimo film di Dario Argento. Grazie alla TV, i giornali, noi ci indigniamo. Ma poi, che facciamo? Il giornale si butta, si passa su un altro canale a vedere un film interrotto inesorabilmente dagli spot pubblicitari, e guardiamo magari divertiti quello dei bambini colorati da Benetton. Ormai l’informazione è un rito. Si incamera, si digerisce (con i dolori dell’indignazione) e si defeca senza assimilo. E via alla puntata successiva di questa enorme telenovela.
Così si aiuta il terzo mondo? E’ progresso questo? Ma cambiamo prospettiva. Sono troppi i paesi in cui le persone sono perseguitate, torturate ed eliminate per motivi politici o razziali. Ogni volta che si vede un film, uno speciale televisivo o si legge qualcosa che tratti dello sterminio del popolo ebreo operato dai nazisti (a proposito del quale ogni tanto si leva una voce infida che tenta di mistificare la storia) ognuno si sente uscire dal più profondo dell’animo “MAI PIU’”. Giusto. Ma il guaio è che quel mai più è stato già più volte sconfessato e lo è tuttora quotidianamente. Viet Nam, Cambogia, Sud Africa, Afghanistan, Palestina, Argentina, Cile e ancora e ancora. Gli stessi israeliani non fanno che ammazzare donne e bambini.
La discriminazione e il pregiudizio razziale sono tuttora una piaga purulenta dell’umanità, anche nei paesi di società avanzate come la nostra. Non sarà mica un caso che nel paese che si erge a simbolo e difesa della libertà mondiale (gli USA) un cittadino con la pelle nera non possa diventare presidente. Non c’è bisogno di puntare l’indice sul Sud Africa per inorridire. La storia della signora fatta scendere dall’autobus a Roma la dice lunga su tante realtà presenti in Italia, compreso le forme di intolleranza verso i meridionali. Ecco, non vorrei dare adito a vittimismo, ma questi fenomeni stanno prendendo una brutta piega. Passi lo striscione “sportivo” (??); purtroppo, però, queste idee si stanno organizzando, si stanno creando un retroterra ideologico e culturale, vanno persino in Parlamento. Mi riferisco alle farneticazioni della Liga Veneta e della Lega Lombarda e Piemontese sul popolo e sulla lingua delle loro regioni.
Un altro punto di vista: il futuro del pianeta. Tutto questo benessere (quello delle società industriali, per inteso) ci costa troppo caro. Alcuni anni fa i primi verdi venivano tacciati di catastrofismo retrogrado contro il progresso e il benessere. Oggi non c’è gruppo politico che non voglia darsi una tinta di verde. E’ dovuto accadere (sta ancora accadendo) il peggio: Chernobyl ecc. L’inquinamento e la deturpazione dell’ambiente ci crollerà addosso se non ci attrezzeremo e non cambieremo il nostro atteggiamento devastante. Se potremo ancora farlo. E preciso che allo scopo non basta l’ipocrita e fanatico amore per l’alberello o la bestiolina. Il problema è scientifico e culturale allo stesso tempo, tecnologico e comportamentale, etico.
Per non parlare degli arsenali. Aver smantellato i missili in Europa è certamente un progresso, ma quelle bombe fanno ridere se comparate agli immensi arsenali ancora tenuti operativi. Il rischio della Bomba perdura distensione o meno.
Per concludere vorrei parlare di come poi questa idea di progresso si diffonda, tornando alla prospettiva occidentale. Il mezzo da cui emana principalmente questo ottimismo è la TV. Devo dire soprattutto dai canali privati, quelli più lanciati alla prolusione del sorriso e del modello americano. Tutto va bene, tutti stanno bene, che motivo c’è di preoccuparsi, tanto il vero problema è che la moglie del petroliere gli fa le corna, ma sono fatti suoi.
L’ottimismo, però, si rivela spesso stupidaggine e ipocrisia. Cosa sarebbe poi questo progresso e questo benessere? Un’auto lussuosa, il meglio dell’attrezzatura elettrodomestica, la moglie che ti tradisce col suo detersivo per piatti? Cento canali televisivi per vedere in diretta come branchi di imbecilli si ammazzano sulle gradinate di uno stadio? Per vedere mille e mille quiz che fanno la gara della stupidità? Mille e mille puntate di telenovelas incentrate sulla nullità fattasi racconto? Essere bombardati da innumerevoli spot pubblicitari che ci danno ordini perentori anche sulla metodologia della pulitura del culo?
E’ la cultura dell’immagine, dell’apparire, del non-essere, della forma contro la sostanza, che esiste ma si nasconde perché brutta da vedersi. Nulla si muove al di fuori di questo sistema estetizzante del cattivo gusto. Siamo prossimi al rincoglionimento generale. Poi ci si chiede attoniti: ma perché mai i giovani si drogano?
La prima accusa che mi aspetto è quella di catastrofismo, o quantomeno pessimismo viscerale. Ma a mio avviso non è questione di ottimismo o pessimismo, perché io mi reputo ottimista. Credo fermamente che le cose possano migliorare, cambiare evolversi e progredire a tutti i livelli. Fermo stando la condizione di osservazione critica di quello che ci circonda. Soprattutto realismo, quindi. Altrimenti si può solo peggiorare.
Uno stupido ed ipocrita ottimismo ci porta a considerare l’epoca in cui viviamo splendida. Ma così non è, o potrebbe non esserlo. Il tutto sta nel definire in che direzione si sta andando. Sembrerebbe ovvio, secondo l’idea di cui parlavo all’inizio, che stiamo andando avanti. Io non saprei indicare la direzione, e vorrei fomentare il dubbio: chissà? Potremmo anche essere diretti nella direzione opposta o, che so, anche stare fermi. Tutto è relativo, grazie Albert.
Antonio Bria